Sfilate uomo AI 2023/24: la moda tra business e sottoculture

La moda uomo per l'AI 2023/24 tra Pitti Uomo e la Milano Fashion Week restituisce una sana separazione tra lusso, nicchie e sottoculture. E ridefinisce un'eleganza fresca, essenziale

Per la gente del settore, l’appuntamento post-natalizio con le collezioni uomo è una specie di rito. Non fai in tempo a tirare giù la calza della Befana che già devi chiudere la valigia e fiondarti a Firenze. Nella fattispecie, parliamo di moda uomo per l’Autunno-Inverno 2023/24 che, per quanto riguarda l’Italia, si è divisa tra la 103esima edizione di Pitti Uomo, in calendario dal 10 al 13 gennaio, e la Milano fashion week che ha raccolto il testimone il 13 e si è conclusa il 17.

Tralascio di recensire ogni singolo show perché ci sono in giro validi colleghi che lo fanno con maggiore solerzia. Nella professione, essere una nave di lungo corso offre almeno due privilegi: quello dei ricordi, che ti aiutano a non entusiasmarti troppo facilmente perché sai riconoscere ispirazioni e spunti. E quello di lasciarti alle spalle l’ansia da prestazione.
Mi affascina invece tantissimo tirare linee per unire puntini anche molto distanti e provare a capire che aria tira, da che parte sta andando il mondo. Dopo il finale ex abrupto dell’avventura di Alessandro Michele alla direzione artistica di Gucci, la fashion people si alambicca il cervello tentando di indovinare cosa succederà adesso alla griffe e cosa farà lui. In tanti dicono che approderà in Bulgari, ma siccome a me non ha telefonato per dirmi gli affari suoi, evito di fare ipotesi a vanvera e se posso permettermi, gli suggerisco di godersi per un po’ i meritati guadagni, infischiandosene di tutto. Trovo più interessante girovagare in Fortezza da Basso, lo spazio che da tempo ospita il Pitti. Osservare gli addetti ai lavori seduti a bordo passerella delle sfilate milanesi. Andare allo show di designer emergenti o quanto meno semi sconosciuti al mondo occidentale, come l’indiano Dhruv Kapoor, presente nel calendario milanese. Non sempre vedo cose stimolanti, questo volta però secondo me qualcosa davvero è cambiato, il che mi porta a fare una serie di considerazioni.

Sono bastate poche uscite dell’emozionante sfilata di Jan-Jan Van Essche nel refettorio del complesso di Santa Maria Novella perché tra i più pragmatici partisse il commento: «Bellissima, ma a chi vuoi che venda una collezione così?». In effetti è tutto fuor che mainstream l’estetica del designer belga, però ciò che forse noi adetti fatichiamo a cogliere è che c’è un mondo di creativi solo all’apparenza schiacciato dai colossi del lusso: ci sono dei marchi e un pubblico che stanno ridando vita all’universo delle sottoculture.

Martine Rose, la stilista anglo-giamaicana altra ospite speciale del Pitti, ha fatto il casting per la sua passerella alla Loggia del Porcellino mescolando agli amici/modelli londinesi, arrivati assieme a lei in città, figure autentiche della città, dal barista ai giocatori del calcio fiorentino. Un espediente certo non nuovo al mondo della moda, specie da quando il concetto di inclusività ha preso piede, comunque un altro segnale del tipo, andateci voi a rincorrere la TikTok generation disposta a spendere e spandere per una borsa griffata e lasciateci vivere la nostra estetica underground in pace.

Ulteriori conferme mi arrivano da Pierre Louis Mascia e da Vain, altri due appuntamenti fiorentini. Il primo, francese non di primo pelo, vive a Tolosa placidamente lontano da tutte le dinamiche fashion e disegna un brand che definisce lui stesso «Gentile, arte imprevedibile piuttosto che un prodotto, anti-trendy» fin da quando l’ha fondato nel 2007 insieme ai fratelli Uliassi, proprietari della storica stamperia serica Achille Pinto di Como.

Il secondo, è un artista e si chiama Jimi Vain. Arrriva dalla Finlandia è un under 25 che ha avviato il suo progetto nel 2019 con un intento chiaro: trovare il senso dell’essere creativi in un mondo digitale, partendo da valori decisamente old school. «Preferiamo restare piccoli», mi spiega Martta Louekari, consulente in comunicazione che segue la scena fashion del suo paese, raccontando come per loro conti di più dialogare con delle communities compatte, piuttosto che tentare un’espansione tout-court.

Osservo i visitatori in Fortezza, i loro abiti parlano. C’è ancora qualche pavone azzimato che indugia in eterno davanti al Padiglione Centrale in attesa di essere fotografato, la maggioranza però sfodera dei look composti, un curatissimo low-profile. Dopo la stagione di eccessi visivi capitanati dal Gucci by Michele, era ovvio che ci sarebbe stata voglia del suo opposto. Il desiderio di pulizia, di un immagine più sobria ed elegante combacia forse con un dato di fatto: la moda sta diventando talmente cara che si spende più volentieri per un capo passepartout.

Appena prima di partire per Firenze ho fatto un giro di shopping in saldo alla ricerca di un cappotto e un paio di scarpe. A dire il vero ho tentato di farlo, sono uscita come non mi capitava da anni con il preciso intento di comprare qualcosa (di norma mi imbatto in una vetrina che mi attrae, difficile che pianifichi un acquisto di proposito) e sono tornata a mani vuote. I capi alla mia portata erano di una qualità scadente (e non parlo di fast fashion), mentre i big names del lusso erano inarrivabili, anche se avessero scontato del 50%. Non entro nel merito del giusto o sbagliato, la pandemia ha picchiato duro sulle aziende e le griffe compensano con prezzi rialzati. Un male? Non proprio dal mio punto di vista, perché questa separazione così netta crea spazio per la rinascita delle sottoculture della moda.
C’è stato un momento (e io c’ero) in cui una fetta di marchi non ambiva a sfilare a Milano o a comparire in ogni dove, semplicemente produceva per il suo pubblico, conquistato attraverso una rete di negozi che facevano ricerca per distinguersi, non omologarsi. Oggi c’è la Rete e soprattutto i social attraverso cui si sta riformando un palcoscenico alternativo. Quello che il lusso ha fatto negli ultimi anni è stato di appropriarsi del linguaggio di quelle nicchie (un esempio su tutti, Supreme e Louis Vuitton). Ho l’impressione però che nel post covid la musica sia cambiata.

Da un lato ci sono i colossi della moda, ormai strutturati come una qualunque altra industria e obbligati a rispondere a logiche di crescita continua che soddisfino chi su di loro ha investito lautamente. Dall’altro realtà che scelgono una via diversa, anche in considerazione dell’enorme impatto ambientale generato dal settore. C’è insomma chi prova a offrire contenuti di qualità e di stile, con parametri di espansione ben diversi. A gente come Van Essche o come il toccante Magliano, andato in passerella a Milano, importa sì di vendere, perché nessuno sta in piedi facendo solo poesia. Ma di vendere a chi li sa capire, perché parla la stessa lingua.

È un approccio alla Martin Margiela dei primi tempi, quando comprare uno dei suoi capi significava in qualche modo entrare in risonanza con lui. Intendiamoci, tutte le maison lavorano con passione per darti la sensazione di entrare nel loro mondo, qui però si parla di dimensioni che rifuggono i globalismi.

La rinascita delle nicchie di consumatori, prima ancora che di prodotto, è un bene per me, come per la moda in generale. La gente come me gioisce nel trovare abiti che corrispondono nel gusto e nel prezzo (non pretendo di pagare un buon cappotto 100 euro, ma in quanti oggi possono spenderne 5000?). Il lusso dal canto suo può ricominciare a fare cio per cui è nato, ovvero servire una fetta limitatissima di persone dall’alta capacità di spesa. In realtà ha nelle sue radici anche un altro compito, la costante ridefinizione dell’eleganza, obiettivo centrato con questa tornata di sfilate uomo.

Il petto e mezzo che Alessandro Sartori ha disegnato per Zegna non è per tutti, e non solo per il prezzo. Si tratta di un immaginario sofisticatissimo, che ti fa dire: «Vorrei vestirmi così», anche se sai di non poterlo fare. Suggerisce un universo di riferimento che ciascuno potrà poi reinterpretare, in base alle proprie disposizioni. Idem per Prada , con la coppia Miuccia e Raf Simons intenta a tracciare un menswear asciutto, scattante e volentieri ingiacchettato.

L’ingiacchettamento riguarda quasi tutti i marchi andati in scena durante la Milano FashionWeek, un ritorno ai codici del menswear più tradizionale, riletto però con uno spirito fresco, avvolgente, contemporaneo, fatto di linee destrutturate e materiali che accolgono il corpo. Altro redivivo, il cappotto, una gioia per gli occhi sia nelle versioni più classiche, sia in quelle più variopinte, viste per esempio da Etro, con Marco de Vincenzo alla sua seconda e riuscitissima prova alla guida creativa della griffe.

Oppure ancora svisate in un’interpretazione a stola, vista da Fendi.

Il bello di questa Milano Fashion Week dedicata all’uomo, anche se con diverse sfilate co-ed, è stato ritrovare tessuti, tagli e silhouette che trasmettono appieno il saper fare del Made in Italy, anziché rincorrere com’è successo in passato gli stilemi dello streetwear. Che si tratti di un grande marchio, come Emporio Armani o di un new name come Federico Cina, resta l’impressione di aver visto una moda pronta a rivestire appieno il suo ruolo.

E anzi, quando si tratta di brand più tecnici, come K Way, c’è la voglia di reinterpretarli con un sapore sofisticato, di ricerca.

Un’ultima nota, ben rappresentata dal setting dello show di Dolce & Gabbana. Dopo le sfilate donna di settembre in cui si avvertiva una sorta di scollamento tra le passerelle e ciò che nel mondo stava accadendo, sembra che i brand abbiano ricominciato a calarsi nello spirito del tempo, ahinoi tormentato. Diverse le venue molto dark, ma quella dei due designer ha colpito nel segno. Niente orpelli, pareti scure, percorse da qualche venatura più chiara. E degli scalini da salire e scendere prima di fare approdare i modelli in pedana. Un’essenzialità ribadita dagli ottimi abiti e necessaria più che mai in questo 2023 appena cominciato.

Cristina Manfredi
Cristina Manfredi

Sono una giornalista di moda e mi puoi leggere su Vanity Fair, Marie Claire, L'Officiel, Style Magazine del Corriere della Sera, F, Affari & Finanza di La Repubblica. Prima di entrare nel mondo del giornalismo, ho lavorato per grandi realtà del settore. La mia passione per il vintage mi ha anche portata, agli inizi degli anni 2000 a partecipare a un allora pionieristico progetto di upcycling. Sono anche docente IED - Istituto Europeo di Design dove insegno Fashion Journalism nei corsi Master.

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